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La Famiglia

Ritratto di Valeria (1941)

ritratto di Valeria Soffici

Olio su cartone applicato su tela, cm 49,3x33,5.

 

Ritratto di profilo della primogenita di Soffici, Valeria (Firenze, 1920-2001).

Negli anni ’50 Soffici dettò alla figlia le sue memorie, pubblicate da Vallecchi in Autoritratto d’artista italiano nel quadro del suo tempo. Dopo la scomparsa della madre Maria, 1974, fu Valeria a riordinare l’archivio del padre e a dare generosa collaborazione alle pubblicazioni d’arte e di letteratura.

 

 

Ritratto della moglie (1942)

ritratto della moglie

Olio su tela, cm 203x100.

 

La signora Maria Sdrigotti di Udine sposò Soffici nel 1919; scomparsa nel 1974 a Poggio a Caiano. Qui ritratta in pelliccia, con parure di perle, come si conviene alla moglie dell’Eccellenza Ardengo Soffici, Accademico d’Italia dal 1939.

 

 

Fanciullo dal fiore, 1928-1929

Fanciullo dal fiore

Olio su carta intelata, cm 119x75.

Ritratto del figlio Sergio, messo in posa con grazia e semplicità. Soffici ha preferito dipingere il pavimento del suo studio, sul quale poggia il fanciullo, come un tappeto d’erba, anziché come nella realtà. La redazione attuale del quadro è difforme, rispetto alla prima versione, nella parte delle gambe.

 

 

Mamma Egle (1904)

Mamma Egle

Olio su tela, cm 213x100.

 

Ritratto a grandezza naturale di struttura e plastica compatta: la serietà formale è in linea con la dignità del carattere che l’autore intende conferire all’immagine della madre, Egle Zoraide Turchini.

 

Laura, 1943

Laura

Olio su cartone applicato su tavola, cm 42,5x31,5.

Ultima dei tre figli, Laura nacque a Poggio a Caiano nel 1925. La terzogenita è ritratta in una posa mesta, con gli occhi abbassati: così l’artista è riuscito a cogliere l’essenza fisionomica con taluni elementi sommessi, di carattere e di psicologia. La pennellata rapida dà alla pittura l’andamento di un abbozzo.

 

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Approfondimento

«Sono uscito dalla guerra un altro uomo; e come tale intendo presentarmi subito ai lettori di questa mia pubblicazione».

Così Soffici apriva Rete Mediterranea, rivista trimestrale da lui interamente redatta nel 1920. Rendeva nota la revisione critica delle esperienze d’avanguardia e invitava a ritrovare le radici della cultura italiana. Appena chiuso il conflitto, in questi anni di ripristino umano e spirituale, Soffici attuava la sua trasformazione  anche in campo pittorico:

«Cominciai a chiedermi se la negazione di tanti principî tradizionali, e la predicazione di un’anarchia intellettuale ed estetica nelle quali mi ero compiaciuto, non presentassero alla fine un enorme rischio aprendo la via a correnti deleterie […] tanto più che la demolizione di quelle norme e punti d’appoggio, non poteva […] non pregiudicare la solidità di altri principî d’ordine etico e sociale […] la mia conclusione fu sin d’allora categorica. Che cioè, le leggi del sapere e della creazione artistica sono intangibili, e che solo il genio può interpretarle, non sovvertirle o abolirle; – pena il trionfo della stupidità o delle barbarie.»

La guerra aveva inaridito le avanguardie: la violenza teorica e intellettuale si era trasformata in offensiva cruenta e micidiale. Ora si tornava a credere nell’affermazione di quella bellezza familiare, nutrita di conoscenze antiche. La più parte degli artisti si indirizzava al recupero della tradizione classica, da leggersi in chiave moderna.

La voce di Soffici si inserì in quel panorama culturale di «ritorno all’ordine»: da uno stile di rottura formale si tornò alla tecnica, al mestiere, ma senza operare una regressione né il ripiegamento su posizioni passatiste.

L’ideale dell’artista nel dopoguerra attinse quindi alla classicità, semplicità, italianità, tradizione, accostamento lirico alla natura. Allontanato da ogni intellettualismo, arcaismo, ibridismo figurativo, giunse al «realismo», attraverso la sintesi dei profili, l’essenzialità dei volumi, con una luce che nei dipinti restituiva alle immagini quiete magica e quasi atemporale.

Abbandonata la scomposizione cubofuturista, ma avendo fatto tesoro delle scansioni compositive e dell’impaginazione dei valori plastici e cromatici, l’artista era tornato alla visione integra delle cose, recuperato un’autentica intesa con la terra e la sfera naturale, ispiratrice in ogni tempo.

Scriveva Soffici a Carrà, 1919:

«Io sono al Poggio dove mi sono rimesso a dipingere. Sento che tutto è da ricominciare. Non ammetto altro che la semplicità davanti alla natura che voglio studiare profondamente e rendere con onestà senza più ricordarmi di teorie o di preconcetti intellettualistici di alcuna specie. Ho cominciato a fare qualcosa in questo senso ritrovando me stesso e la gioia o la pena tranquilla del lavoro spontaneo e probo.»

In una grande personale a Firenze, 1920, che riuniva per la prima volta opere cubofuturiste con quelle di impronta cezanniana fra il 1903 e il 1911, fu evidente che la pittura più recente, 1919-1920, paesaggi, casolari, ritratti di familiari, dava continuità al lavoro giovanile, riprendeva i temi di dieci anni prima, con compostezza formale e solidità d’impianto.

Soffici nel 1921: «Realismo purificato: così potrei definire il mio genere di arte.»